25 agosto 1992, Orsigna. Folco è partito col sacco in spalla, una pesantissima valigia piena di libri e il tamburo sotto il braccio. Ha lasciato un grande vuoto.
Viene a trovarci Alberto Baroni con una sua bibliotechina per il possibile libro sui vecchi. Ci impressiona con un paio di idee: il mutato concetto della morte in questo secolo.
Nella civiltà maya chi vinceva alla pelota riceveva come premio il privilegio di venir sacrificato agli dei. In un mondo il cui il rischio di morire di diarrea era immenso, era un grande onore morire da eroi. La morte si sublimava nell’eroismo.
Oggi nessuno vuole più morire da eroe, perché le chance di vivere a lungo sono grandi. Da qui anche la crisi della religione. La gente non si interroga più sull’aldilà, ma sul come conservarsi, come mantenersi giovane. io dico che la gente non parla più di Dio e della morte, ma della pensione.
Prima, la morte di una persona era un fatto corale. Moriva uno e i vicini di casa assistevano e aiutavano, ognuno faceva così un’esperienza della morte. Oggi è il contrario, la morte viene celata, nascosta. Nessuno sa più gestirla, nessuno sa cosa fare dinanzi a un morto. I vicini scappano, non partecipano. Prima un ragazzo faceva spesso l’esperienza della morte, oggi uno può arrivare alla propria senza mai aver visto quella altrui. Prima dall’ospedale si veniva portati a casa a morire. Ora è il contrario. La famiglia porta uno a morire all’ospedale perché nessuno sa cosa fare col morto. Ricordo da bambino i morti lavati.
(Un'idea di destino, 2014)
Questo stralcio del diario di Tiziano Terzani mi è entrato sotto la pelle. Ci sono tanti, tantissimi suoi pensieri che conservo e faccio miei mentre negli anni centellino ogni suo scritto, avidamente ma con la paura di finire troppo presto. Ho bisogno di lui per dirmi quel che penso e non so esprimere. L’idea che non stia più lì da qualche parte nel mondo a scrivere del suo dolore per tutto ciò che non va nel sistema mi fa sentire sola, come se adesso non ci fosse più nessuno ad accorgersi che c’è qualcosa che non va, qualcosa di veramente sbagliato in questo modo di vivere.
E così anche ieri notte, quando in preda all’insonnia per il male al piede mi rigiravo cercando di tenere a freno l’ansia per, beh, praticamente qualsiasi cosa, leggere queste poche righe scritte tra le sue colline in un momento per lui molto difficile, in preda alla depressione e all’indecisione su dove dirigersi, senza sapere che avrebbe presto trovato la sua India e la sua pace, mi ha fatto piacere come una candela che illumina il buio.
Folco che parte mi ricorda il giorno che sono partita dall’Italia, anch’io come lui non volevo saperne di lavare i piatti e apparecchiare la tavola, pensavo che la vita non fosse quella. Invece eccomi qui, di ritorno in Italia per scelta, con il canovaccio in mano e la tovaglia sullo stendino perché Luna ci ha fatto su un bel disegno coi mirtilli ieri sera. Anche lei un giorno mi saluterà allegra e spaventata agitando la mano dal finestrino di un treno? Come sopravvivrò?
La civiltà Maya che muore di diarrea è un bel cambiamento rispetto all’idea di saggezza e indistruttibilità che mi è stata impartita nel corso dei miei viaggi in Messico e Guatemala. Mi fa venire voglia di tornarci per poterli studiare sotto un altro punto di vista e magari interrogarli, cari Maya, ditemi, qual è il modo giusto di reagire alle epidemie che ci attanagliano, ai virus, al Dio denaro, alla sovrappopolazione?
“Morte tua vita mia” sembra ormai più appropriato di “mal comune mezzo gaudio”. Com’è successo? È perché se muori tu ho più probabilità di sopravvivenza io?
È vero che nessuno pensa più all’aldilà? Messi come siamo dubito che ci accoglierà Dio, forse anche lui ha ben pensato di ritirarsi in quarantena.
Nessuno vuole più farsi seppellire, ci vogliamo tutti far cremare, perché? Per levare il disturbo, smettere di occupare spazio, evitare che possano acchiapparci.
Per me è un desiderio di libertà, di aria, di pulizia. E di mettere il punto.
Anche Terzani a 66 anni ha smesso ogni tipo di cura contro il cancro allo stomaco e ha scelto di morire circondato dai suoi cari, “estremamente affaticato ma serenissimo”.
“Ormai mi incuriosisce di più morire. Mi rincresce solo che non potrò scriverne”.
Dispiace immensamente anche a noi, caro Tiziano.
È vero, non ci piace pensare alla morte. Io credo sia molto comprensibile, del resto se pensi alla morte ti paralizzi, non riesci più a fare molto, non riesci più a progettare e quindi diventi immobile e triste. Parlo per esperienza perché, purtroppo, ho fatto spesso l'esperienza della morte dei miei cari, io stessa alcuni anni fa ci sono andata vicina. La mia più recente esperienza sulla morte ( Nel 2019 ho perso mio cognato) mi ha paralizzato, per molti mesi ho smesso di scrivere, oltre ad aver smesso di inseguire diversi progetti importanti per la mia vita, forse li riprenderò chissà. Se pensi alla morte non vivi, certo è bene pensarci ogni tanto per apprezzare di più il presente. Anch'io vorrei farmi cremare, ma solo perché vorrei che le mie ceneri fossero disperse nel vento o nel mare o sotto un giovane albero...
RispondiEliminaMi dispiace che tu abbia avuto a che fare così da vicino con la morte. Non lo si augura a nessuno, anche se magari vivrai una vita più piena e significativa proprio per la consapevolezza che ti deriva da tale trauma.
Elimina"Se pensi alla morte non vivi" è molto vero, basta guardarsi intorno in questi giorni per vedere il panico negli occhi sui volti coperti dalle mascherine. Però "se non pensi alla morte non vivi" può essere altrettanto vero, se ti scordi di essere mortale puoi sprecare il tempo che hai a disposizione e limitarti a sopravvivere.
Oh sì, mi piacerebbe leggere un suo reportage dall'aldilà! Purtroppo non accettare la morte, non volerci avere alcun contatto, influisce sulla nostra capacità di vivere la vita pienamente, senza negare niente, senza costruirci miti e idoli di zero valore. Se non sapessimo che a un certo punto questo viaggio finisce, come faremmo a capire cosa ha valore e cosa no? Stiamo pasticciando parecchio, questo è certo.
RispondiEliminaStiamo davvero pasticciando e quando sentiamo il pericolo ognuno è per sé. "Si salvi chi può". Basta guardare alle immagini della stazione di Milano sabato sera. Nessuno si è posto il problema delle conseguenze di un ammasso di gente tale diretto da ogni parte.
EliminaAdesso invece più che mai dovremmo riscoprire il bisogno che abbiamo gli uni degli altri. Io stessa dopo due settimane di auto-isolamento preventivo ho scoperto che preferirei morire di virus che stare lontana dai miei cari un'altra ora.
Non ricordo dove l'ho letto, ma il cervello umano usa la negazione per poter sopravvivere a ciò che non può gestire. Perciò neghiamo la morte tutte le volte che possiamo, perché non possiamo vivere pensando che ogni secondo potrebbe essere l'ultimo. Per un virus, per un'aneurisma, per una caduta fatale, per un'auto che perde il controllo, per un asteroide.
RispondiEliminaTutta questa mole di informazione che ci arriva è utile o nociva? Pensa se il telegiornale ci ricordasse ogni giorno le percentuali di morti causate da aneurismi, incidenti stradali e simili... si scaturirebbe il panico. Poi pian piano ci abitueremmo e diventeremmo insensibili anche a quello. Il buon vecchio "denial". Avevo letto che se le donne ricordassero il dolore del parto non farebbero mai un secondo figlio, potrebbe essere la soluzione alla sovrappopolazione :D
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